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22 novembre, 2010

Giardini : Doppio gioco


Un'epoca, il Rinascimento, che fu l'apoteosi della bellezza. Un luogo, Roma, che di quella bellezza fu il cuore. E un papa, Clemente VIII, che quel cuore visse tra umane tentazioni e ascetiche nobiltà. Un'esistenza importante la sua, spesa nell'equilibrio difficile di un doppio gioco che se affidava alla Chiesa il silenzio della preghiera le arrogava pure il diritto di inserirsi a pieno titolo nella movimentata avventura del mondo.
Con un occhio volto alla terra e uno al cielo, il potere temporale partecipava ai fasti dell'aristocrazia capitolina, e il nepotismo ecclesiastico, a volte illuminato altre volte astuto e intraprendente, segnò la fortuna delle grandi famiglie romane. Fu così che da un dono –uno dei tanti – fatto da Clemente VIII a Pietro Aldobrandini, cardinale e nipote prediletto, nacque allora uno dei più fastosi giardini di Roma. E nacque a Frascati, nella zona dei Castelli Romani, dove da sempre, anche oggi, i papi hanno la loro residenza estiva. La dove prima di loro avevano scelto di abitare illustri cittadini dell'antica roma, come Cicerone, Lucullo, Catone. Complici, la vicinanza con la capitale e la dolcezza del clima. Ma non solo.


Quando, nel 1598, Pietro Aldobrandini incaricò l'architetto Giacomo Della Porta di trasformare la piccola villa ricevuta in dono in un palazzo degno del suo rango, certo sentiva la suggestione di una campagna densa di perdute magie, di un luogo che parlava di dèi ed eroi, di quel Bosco Sacro dedicato a Diana che gli antichi romani avevano fondato proprio lì, sui colli del Tuscolo. Mito e storia ancora una volta avevano mescolato i loro destini e attratto nelle maglie della seduzione l'ennesima vittima.
Da sempre il simbolo è segno immediato, intuitivo di una conoscenza della realtà che va al di là delle limitazioni individuali e temporali, e la sua lettura non poteva non affascinare l'animo colto e sensibile del cardinale.


Così, Villa Aldobrandini diventa l'apoteosi dell'allegoria. Qui tutto ha un doppio volto. A cominciare dal proprietario, potente uomo di Chiesa diviso tra le lusinghe dell'apparire e i conforti silenziosi della religione; poi la facciata del palazzo, quella ufficiale, severa e composta, che apre la vista sulla città di Roma stesa ai suoi piedi, quale simbolo di potere e ricchezza, e quella posteriore, forse ancora più ricca ma più elegante, testimone dei raffinati ma più ricca più elegante, testimone dei raffinati ma altrettanto sontuosi giochi privati dei proprietari: il Teatro delle Acque e il grandioso Ninfeo a esedra. Qui, nel vasto piazzale chiuso a emiciclo, scendeva un'imponente cascata d'acqua che partendo dall'alto del colle rimbalzava sui gradini di una lunghissima scalinata attraversando suggestive fontane dal volto mitologico sino ad arrivare alle statue collocate nelle nicchie del ninfeo che erano in grado, grazie a un complesso di congegni
idraulici, di suonare le dolci melodie del flauto. E ancora una doppia lettura. La metafora dell'acqua, simbolo catartico, che nel suo incedere verso la villa disegna un profondo legame tra la natura e l'uomo; ma l'acqua anche quale segno di ricchezza, testimonianza di denari spesi senza riserva – quelle meraviglie costarono alle casse pontificie più della costruzione del palazzo – per stupire e affascinare gli ospiti importanti.
Un gioco che terminava la sua folle corsa sublimandosi nell'allegoria,  sacra e profana insieme, delle statue raccolte nelle nicchie del ninfeo. Centodiciotto metri di una mitologia che sfidando i rigidi dettami dell'iconografia ecclesiastica veniva riletta in una chiave di esaltazione personale, culminando nella figura di Atlante ricurvo sotto il peso del mondo così come il pontefice era piegato dalle ansie per i problemi dell'umanità. Sopra tutto, in cima alla gradinata d'acqua, due alti pilastri, novelle Colonne d'Ercole, indicavano il punto oltre il quale, dalle finestre della villa, lo sguardo umano non poteva spingersi. E sotto, nella Stanza di Apollo, il Parnaso, monte sacro alle muse, incrociava spavaldo la sua  storia con quella del colle di Frascati.
Una storia beffarda, che di matrimonio in matrimonio mescolò i destini delle più nobili famiglie romane, affidando le sorti della villa dagli Aldobrandini ai Pamphili quindi ai Borghese, per ritornare poi alla casata d'origine, che oggi, con illuminato mecenatismo, regala al visitatore il fascino, forse un po' consunto, di antichi racconti famigliari. Ma nel silenzio dell'acqua fermata dall'inclemenza del tempo ancora si riesce a leggere la grazia misteriosa di quell'allegoria profana voluta da un ricco cardinale della chiesa di Roma.


Elena Sozzi

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